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06/04/2020

Pensare al #dopocoronavirus - le parole di Edoardo Patriarca per #ILDONONONSIFERMA

La parola comunità

Comunità è una parola antica, oggi tornata sul palcoscenico delle parole più frequentate nel tempo del coronavirus. Le realizzazioni concrete sono tante, e tra loro contrastanti.

Aldo Bonomi nei suoi scritti e nel suo viaggio nei Balcani racconta che in quella parte di Europa la parola comunità è una parola maledetta, impronunciabile, senza speranza.

Ma al contempo Bonomi scopre un'altra dimensione, l'altra faccia della medaglia: il lavorio silenzioso di tessitura che compiono le associazioni di volontariato (le comunità di cura) e quello dei piccoli imprenditori e artigiani (le comunità operose) che non scambiano e producono solo merci, ma realizzano assieme valore di legame, si “mettono in mezzo” per contendere lo spazio alle comunità dell'odio. Aiutano le persone a riprendere coscienza del luogo che abitano, dei sentimenti di appartenenza, e del radicamento nello spazio in cui intraprendono. E così quel territorio si fa più ospitale, genera nuove reti di solidarietà, coalizioni per lo sviluppo che danno origine a inediti processi partecipativi e di responsabilità condivise. Comunità dell'odio e comunità rancorose contrastate dalle comunità di cura e dalle comunità operose.

La parola comunità ci appare dunque ambigua, contraddittoria, gli aggettivi che abbiamo utilizzato si contrappongono, un vero e proprio campo di battaglia, un conflitto di valori e ideali inconciliabili.

Ma nel tempo del coronavirus, del distanziamento sociale, perché non recuperare “ Comunità” ai suoi significati originari?

Le parole sono un oggetto misterioso, non nascono dal nulla, hanno una carne, celano una esperienza umana, evocano immagini, ricordi e passioni.

Comunità deriva dal latino “communitas”: contiene “cum”, insieme; e “munus” , dovere, pegno, dono: “ ti devo qualcosa”, piuttosto che “mi devi qualcosa”. Siamo insieme!, ma legati dal dono, da un pegno, da una responsabilità.

Ma di quale dono stiamo parlando?

Il dono si esprime in una molteplicità di forme assai diverse tra loro, può essere persino velenoso in talune manifestazioni. Il dono di cui parliamo qui vive della reciprocità, si esprime con una grammatica relazionale (Luigino Bruni), è un dare e un ricevere, e attraverso i suoi gesti costruisce relazioni di amicizia, orditi e trame di fraternità. Il mio padre spirituale mi ha raccomandato sin dai tempi dell'adolescenza che per vivere una vita felice occorresse sentirsi sempre a “debito” e mai a “credito”: a debito per le cure e le attenzioni ricevute; a debito verso le tante persone che ti hanno aiutato a crescere; a debito verso la comunità ecclesiale, i parroci che si sono succeduti nel tempo ; a debito verso la comunità locale che ti ha donato quel senso di appartenenza prezioso e indispensabile se vuoi essere per davvero un cittadino del mondo.

E va da sé che accanto alla communitas inevitabilmente cresce la reazione opposta, quella difensiva, di paura, di immunitas per difendersi da un munus che si avvicina troppo minaccioso e impegnativo; ci si svincola, si costruiscono difese e identità nostalgiche destinate a perire. La fraternità con il diverso inquieta, la tradizione minacciata dalla contaminazione va difesa, come pure i riti religiosi pur senza fede. E così che si alimentano le comunità rancorose.

Le comunità della cura - il volontariato, l'associazionismo, i sindacati…; e quelle operose - le piccole aziende, gli artigiani, le imprese civilmente responsabili, al contrario sanno di avere accanto il diverso sempre, si arricchiscono di relazioni, sanno benedire e sono benevole, contano sulle proprie forze, conoscono i propri limiti eppure collaborano e cooperano oltre i propri “confini”.

Possiamo dire che il coronavirus ci ha fatto un dono, senza scadere nella retorica o in una melassa di buoni sentimenti? Rischierò anch'io. Sarebbe davvero una occasione persa se da questa crisi non uscissimo più consapevoli e più attrezzati.

Vi propongo solo qualche spunto, alcune dimensioni che questa quaresima ha fatto riemergere e che possono aiutarci a fare più comunità di cura e operose.

Abbiamo riincontrato la dimensione della mortalità, la consapevolezza che vita e morte siedono accanto, che occorre proteggere i nostri anziani e le persone più fragili, che la nostra vita è attraversata da un limite, da una fragilità costitutiva, ineliminabile. Il delirio di onnipotenza è messo in soffitta, persino le certezze granitiche della tecnoscienza e delle sue previsioni ci appaiono consunte e incerte più che mai. Saremo più prudenti, più avveduti.

Abbiamo nostalgia della bellezza dello stare insieme, ci siamo resi conto che amiamo la solitudine solo se scelta; l' isolamento, per di più obbligato, non è il nostro destino personale e di comunità. Insomma non possiamo vivere staccati dagli altri. Riscopriremo l'essenziale, il senso del nostro vivere quotidiano. Persino la tenerezza, la carezza, la stretta di mano, l'abbraccio, la pacca ci rammentano che alla vicinanza fisica deve corrispondere una vicinanza mentale ed emotiva, che non possiamo stare con gli altri e contemporaneamente con gli occhi e la mente rivolti sullo smartphone.

Le Comunità di cura sono resilienti, sono cioè capaci di resistere agli urti senza spezzarsi, fanno fronte ad ogni evento negativo senza soccombere, e per riprendere a vivere. Sono Comunità che sanno benedire, duttili e creative, manifestano una premura educativa verso le giovani generazioni diffusa e condivisa, sono attrezzate a praticare il discernimento comunitario per vivere il presente nel futuro. Sono Comunità ricche di tradizioni e di riti ma sempre aperte all'altro, al diverso da sé, pronte ad attraversare i propri confini e a farsi attraversare. Comunità di destino che sanno guardare avanti con speranza.

“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi” da (Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry)

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